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Voglio dire che non controllano per niente le loro emozioni. Io voglio fare dei film, so che un giorno ne
farò. Ma non fa male vivere una vita per certi aspetti diversa, prima di entrare nel mondo del cinema».
Sembrava come se stesse parlando a se stessa, cercando di rendere accettabile la sua argomentazione.
Che però non era chiara.
«Due anni, tesoro», dissi. «Due anni, e allora nessuno potrà fare nulla né a te né a me».
Pensai a Bonnie che mi aveva minacciato con quei negativi. Pensai alla persona senza volto che aveva
messo a soqquadro la mia casa vuota. Quando era successo? Lo sconosciuto aveva scattato col flash le
foto dei miei quadri l'ultima volta che stavamo a Carmel? Collera che ribolle. Lascia perdere, Jeremy. Ti
ha dato i negativi senza la minima resistenza. Quella donna è tragica. «Affidala al Cielo», come recita la
vecchia poesia.
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Intorno alla mezzanotte si era addormentata nel letto della mamma - il nostro letto - e io dipingevo di
nuovo al piano terra, nel vecchio posto. Mi affrettavo, cercando di apportare gli ultimi ritocchi sulle
vecchie tele. Domani avrei preso gli attrezzi della camera oscura e avrei usato il bagno di servizio vicino
alla cucina. Tutto sarebbe stato perfetto.
Quando finalmente mi sbrigai, uscii e sentii quell'ab-braccio della notte immota che mai e poi mai si può
provare a San Francisco.
La grande carcassa della casa sembra inclinarsi come una nave nell'oscurità, con i suoi comignoli gemelli
inghiot-titi dall'edera. E si levano odori di fiori: il denso, vertiginoso profumo che qui s'incontra dovunque.
Oh, perché mai partii? Quel profumo l'ho semplicemente portato con me in tutti i miei lavori. Charlotte e
Angelica, finanche la Bella Addormentata, sì, specialmente la Bella Addormentata sot-to la sua garza di
ragnatele. Ma ora tutto è diverso. Il passato è vivo. Io sono vivo.
Guardai all'insù. Lei era venuta dietro lo stipite della porta. Portava di nuovo solo lo slip. E la luce della
cucina dietro di lei divampava attraverso i suoi capelli.
Là non c'era una bambina. C'era una donna.
Durante il fine settimana lei se ne andò a lungo in giro col furgone: divenne pratica di tutta la città. Andò
nei centri commerciali solo per ricordarsi, e a volte non senza difficol-tà, che anche quaggiù si trovava in
America. E si affezionò naturalmente al quartiere francese. In città si davano parec-chi bei film che non
avevamo mai visto. Dobbiamo vederli, disse. E da quello che aveva arguito, la lista dei ristoranti era
interminabile.
Avevo iniziato a dipingere Belinda nel letto della mam-ma: due tele su cui lavoravo simultaneamente.
In una stava in slip di seta, nell'altra in reggiseno e mutandina. Ed erano chiaramente le opere più erotiche
che avevo fatto finora.
Sapevo che stavo dando inizio del tutto involontaria-mente a un nuovo ciclo, proprio come accadde
quando feci il dipinto del Café Flore. Ma ora il mistero diveniva più profondo. Ero un uomo nel bel
mezzo di un sogno a occhi aperti.
Riuscivo a stento a non distrarmi quando dipingevo i suoi seni e le sue mutandine. Dovevo sbrigarmi,
uscire nel cortile e lasciare che il calore mi tramortisse. Settembre a New Orleans. Ancora estate.
Ma procedeva così bene! Continuazione della serie donna matura. E se in California avevo raddoppiato
la mia abituale velocità, be', qui andavo alla velocità di un uraga-no. Di nuovo dormivo massimo cinque
ore a notte. A volte soltanto tre.
Ma il pomeriggio era l'ideale per schiacciare un pisoli-no. Allora la signorina Annie dormiva. Belinda
andava a cavallo all'Audubon Park, si arrampicava intorno a Tulane prendendo una o due lezioni. Iniziò
un diario e a volte vi scriveva su per ore nella biblioteca. Io sonnecchiavo nel letto della mamma.
Lei era impegnata e contenta proprio come prima. I libri si ammucchiavano. Le registrazioni delle nuove
serie televisive e le videocassette si moltiplicavano. C'eravamo sistemati nella camera da letto, nella sua
camera giù all'in-gresso e in biblioteca a piano terra.
La notte di mercoledì lei guardava Volo Champagne. Io ero immerso nella vasca da bagno. La porta
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era aperta. Non mi diceva una sola parola riguardo alla trasmissione. Se ne stava semplicemente seduta
sul divano della mamma, con un paio di pantaloncini bianchi aderenti e un prendisole rosa - un genere di
abbigliamento casual che non aveva mai indossato a San Francisco - e lo sguardo fisso sullo schermo.
Udivo parlare Bonnie. Poi Alex. Poi di nuovo Bonnie. Deve essere stato il grande addio di Alex a
Bonnie, invaghitasi del giovane punk. Bonnie piangeva. Detestavo quel tono di voce. Non voglio mai
più rivederla.
Passò qualche altro giorno prima che mi ricordassi di Dan. Dovevo chiamare Dan! Tutto il resto
procedeva splen-didamente. Avevo provato a chiamare New York da un telefono a scatti del centro.
Le Produzioni Rainbow avevano pagato trecentocinquantamila dollari per i diritti su Angelica. Il mio
contabile li stava già suddividendo in tasse e investimenti. La Rainbow mi voleva a pranzo a Los Angeles,
ma non mi sarebbe stato possibile. Nessun'altra telefonata. Per favore, signori della Rainbow, portatevela
via, quell'Angelica.
E ora Dan. Dovevo raccontargli l'ultimo capitolo, il capitolo terribile, quella donna nella stanza anonima
all'Hyatt con in mano una sigaretta a mo' di ninnolo.
Ma Dan meritava una chiamata. Probabilmente era fuori di sé.
Entrai in una cabina su a Jackson e Saint Charles. E mi rispose la sua segreteria telefonica di San
Francisco. «Lascia un messaggio. Anche lungo, se necessario». Be', per la prima volta nella mia vita
potevo avvantaggiarmene. Iniziai a raccontare l'intera storia in termini velati. «Non più di due ore dopo
che parlai con te, guardai fuori dalla finestra e...».
Credo che cominciò così. E i dubbi?
Mentre raccontavo la storia.
Stavo nella cabina e non vedevo nulla all'esterno, tran-ne i lunghi tram di legno scuro che scivolavano
vicino, con i tetti bombati tutti bagnati dalla pioggia dei quartieri alti, che. qui non era caduta.
E sentivo me che dicevo: «... come ero stato rapito in una limousine nera, immagina un po'...» e
«...qualcuno ha fatto irruzione in casa mia, s'è preso i negativi e...». Proprio allora realizzai che la cosa
appariva assurda.
«Be', questo è in verità il furto», continuai, «ma lei me li ha restituiti, i negativi, e...». No, forse neanche
questo aveva molto senso.
E ritornò il sogno, quello che avevo fatto il primo pomeriggio nel letto della mamma, di Alex che
raccontava a tutti la storia. Che sensazione avevo provato nel sogno? Che non ci credevo.
«Ebbene, Dan...». Borbottio. Mi sorpresi che racconta-vo come avevo controllato le serrature una volta
tornato alla casa di San Francisco. Non riuscivo a immaginare come quel bastardo si fosse appropriato
dei negativi, come avesse persino saputo distinguerli dagli altri e... «Sai, quelli sono professionisti, e di
prim'ordine, credo». Era vero? «E prima o poi questa gente arriva dove vuole».
Meglio chiuderla qui.
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«Ma vedi, quello che è successo tra lei e il patrigno, qualunque cosa sia, mette in condizione Belinda di
giocarsi, con le sue piccole mani, delle carte importanti. Prova ne è che loro non hanno osato farla
prendere dalla polizia...».
Hmmmm!
«E questa situazione somiglia proprio a una casa da gioco. Perché tutto è qui in equilibrio precario. Loro
fregano me. La piccola Belinda frega loro. Tutti noi ci lasciamo risucchiare dalle bassezze. Nessuno
tuttavia ci farà niente finché non decido di far vedere quei quadri...».
Avevo parlato dei quadri, a Dan? «Un'altra volta ti dirò dei quadri, vecchio mio. Ti richiamo».
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