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perfetto dell'omicida. Forse stava appena cominciando a comprendere la sua
vera natura.
«Sono un vampiro», disse il Mastermind, poi spinse di lato le mutandine di Ms.
Green e sprofondò nella vagina della ragazza morta. «Sono pazzo e questo è lo
scherzo più formidabile che si potesse immaginare.
Sono io il folle.
Se soltanto la polizia lo sapesse. Che grande indizio!»
PARTE TERZA
ALLE PRESE COI PEZZI GROSSI
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Per tre giorni non si verificarono altre rapine. Uno di quei giorni, un sa-
bato, trascorsi il pomeriggio col piccolo Alex. Erano circa le sei quando lo
riportai a casa di Christine.
Prima di rientrare, feci fare un giro al bimbo nel giardino fiorito dietro la
casa di lei, a Mitchellville, la sua «residenza di campagna», come mi diver-
tivo a chiamarla. Il giardino era uno splendore. Era la stessa Christine a
preoccuparsi di piantare i fiori e di curarli. C'erano rose di ogni tipo:
dagli ibridi di tea alle multiflora e alle polianti, di una tale radiosa
bellezza da farmi tornare in mente quella di lei prima del rapimento alle
Bermuda. Tut-
to, in quel giardino, era una gioia per gli occhi. Per quel motivo, forse, mi
sentivo così maledettamente triste a trovarmi lì senza averla al mio fianco.
Tenevo in braccio il piccolo Alex, parlandogli, indicando il prato accura-
tamente rasato, un salice piangente, il cielo, il sole al tramonto. Poi gli
fa-
cevo notare quanto fossero somiglianti i nostri volti: naso con naso, occhi
con occhi, bocca con bocca. Ma continuavo a fermarmi per baciargli una gota o
il collo o la nuca.
«Senti come profumano le rose», gli sussurrai.
Qualche attimo dopo, vidi Christine uscire precipitosamente di casa. Ca-
pii che aveva qualcosa in mente. Sua sorella Nathalie le stava dietro. Per
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proteggerla? Ebbi l'impressione che stessero per sottopormi a un fuoco di fila
incrociato.
«Alex, dobbiamo parlare», esordì Christine, dopo avermi raggiunto in giardino.
«Nathalie, puoi prenderti cura del bimbo per un paio di minuti?»
A malincuore, consegnai il piccolo Alex a Nathalie. A quanto sembrava, non
avevo scampo. In quegli ultimi mesi Christine era notevolmente cam-
biata. A volte mi pareva di non riconoscerla. Forse tutto ciò dipendeva dai
suoi incubi, che sembravano continuare ad assillarla.
«Devo parlarti. Ti prego, ascolta in silenzio», cominciò.
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Tenni a freno la lingua. Erano mesi che la situazione fra noi andava a-
vanti a quel modo. Notai che i suoi occhi erano cerchiati di rosso. Aveva
pianto.
«In questo periodo, Alex, sei alle prese con altri casi di omicidio. Imma-
gino che per te vada bene così... è la tua vita. Ci sei evidentemente porta-
to.»
Non riuscii a stare zitto. «Mi sono offerto di lasciare la polizia, di torna-
re alla professione privata. Lo farò, Christine.»
Lei si accigliò e scosse la testa. «Quale onore.»
«Non ho intenzione di litigare», replicai. «Scusa, continua pure. Non vo-
levo interromperti.»
«Io, qui a Washington, non vivo più. Sono sempre in preda alla paura.
Per meglio dire, sono pietrificata.
Ormai l'idea di andare a scuola mi è di-
ventata odiosa. Mi sento come se la vita mi fosse stata sottratta. Dapprima
George, poi ciò che è accaduto alle Bermuda. Temo che Shafer torni a
prendermi.»
Dovevo parlare. «Non verrà, Christine.»
«Non dirlo!» Alzò la voce. «
Tu non lo sai! Non puoi saperlo!
»
Era come se dai miei polmoni fosse stata lentamente risucchiata tutta l'a-
ria. Non capivo dove Christine volesse andare a parare, ma sembrava sul-
l'orlo di una crisi isterica. Come la sera in cui aveva sognato che Geoffrey
Shafer era in casa sua.
«Intendo allontanarmi il più possibile da Washington», continuò. «Non appena
l'anno scolastico sarà finito, me ne andrò. Non intendo farti sapere in quale
località deciderò di trasferirmi. Non voglio che tu ti metta a cer-
carmi. Ti prego, AJex, con me non comportarti da detective.
O da strizza-
cervelli.
»
Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Non mi aspettavo nulla del ge-
nere. Rimasi senza parole, limitandomi a fissarla. Non credo che in vita mia
mi fosse mai capitato di sentirmi così sconvolto, così rattristato e solo.
Avvertivo in me un profondo vuoto.
«E il bambino?» riuscii finalmente a dire, in un sussurro che mi uscì di bocca
rauco e strozzato.
Di colpo i suoi bellissimi occhi si riempirono di lacrime. Christine co-
minciò a singhiozzare, scossa da un tremito incontrollabile. «Non posso
prendere Alex con me. Non ora, non nello stato in cui mi trovo. Non così.
Per il momento il bimbo dovrà stare con te e Nana.»
Feci per replicare, ma non riuscii a proferire parola. Gli occhi di Christi-
ne incontrarono brevemente i miei. Avevano un'espressione così triste, co-
sì dolente e confusa. Poi lei si voltò e tornò verso casa.
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Ero triste e rabbioso, e tenevo tutto dentro di me, benché sapessi che non era
il caso, che così non avrei fatto altro che peggiorare la situazione.
Me-
dico, cura te stesso.
La domenica mattina mi capitò d'incontrare in chiesa la mia psichiatra, Adele
Finaly. Eravamo venuti alla messa delle nove con le rispettive fami-
glie. Lei e io ci appartammo nel portico sul retro, per scambiare quattro
chiacchiere. Adele doveva aver intravisto qualcosa nei miei occhi. Non le
sfugge praticamente nulla e mi conosce molto bene, dal momento che sono stato
in analisi da lei per quasi quattro anni.
«È per caso morta la gatta Rosie o che altro?» mi chiese sorridendo.
«Rosie sta benissimo, Adele. E anch'io. Grazie del tuo interessamento.»
«Uh-uh. Allora perché hai la stessa aria che aveva Ali la mattina dopo
l'incontro con Joe Frazier a Manila? Me lo puoi spiegare, se non ti dispia-
ce? Fra l'altro, sei venuto in chiesa con la barba lunga.»
«Hai un bel vestito», ribattei. «Quel colore ti dona.»
Adele si accigliò e non mollò la presa. «Già. Il grigio non è la mia tinta
preferita, Alex. Che cos'è che non va?»
«Niente.»
Adele accese una candela votiva. «Amo tutto ciò che è magico», sussur-
rò, poi sorrise con aria maliziosa. «È parecchio che non ci vediamo, Alex.
Il che m'induce a pensare al meglio o al peggio.»
Anch'io accesi un cero, poi pronunciai a voce alta una preghiera. «Dio
onnipotente, continua a vegliare su Jannie. Vorrei pure che Christine non se
ne andasse da Washington. Lo so che mi stai mettendo di nuovo alla prova.»
Adele sobbalzò, come se si fosse scottata. Distolse lo sguardo dalla tre-
molante fiammella votiva e mi fissò negli occhi. «Oh, Alex, mi dispiace.
Non hai bisogno di essere sottoposto ad altre prove.»
«Sto bene», replicai. Non me la sentivo ancora di affrontare quell'argo-
mento, neppure con Adele.
«Oh, Alex, Alex.» Scosse più volte il capo. «Sai perfettamente che non è
così. Me ne rendo conto anch'io.»
«Sto bene, davvero.»
Adele parve esasperata da quel mio atteggiamento. «Come vuoi, allora.
Mi devi cento dollari, per la seduta. Puoi metterli nella cassetta delle
offer-
te.»
Si avviò verso la sua famiglia, che si era già seduta a metà della navata
centrale, ma a un tratto si voltò verso di me e mi fissò. Non stava più sorri-
dendo.
Quando raggiunsi il nostro banco, Damon mi chiese chi fosse la bella si-
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